01 Gennaio 2020
La sua passione per la cucina è nata tra le mura di casa dove mamma e nonna, da buone emiliane, lo hanno cresciuto con i piatti tipici della terra natia. Nella sua città, Parma, Graziano Racchelli ha avuto l’onore di cucinare personalmente per due Presidenti della Repubblica in visita ufficiale. Attualmente, conduce sapientemente e diligentemente la cucina dell’Alfione di Parma, un format vincente che ha condiviso fin dalla nascita e che ama in modo particolare. Ma chi c’è dietro l’idea di questo ristorante ‘sui generis’? Chi ha avuto l’idea di unire un banco gastronomia alla cucina tradizionale? “Il progetto nasce insieme agli imprenditori con cui ho condiviso l’idea sin dall’inizio - rivela Racchelli - Volevamo partire da una risorsa: una bottega storica esistente da oltre 50 anni che testimoniasse e rappresentasse le radici. Non a caso abbiamo mantenuto l’ingresso dalla salumeria, inizio del percorso che si evolve e sviluppa per arrivare alla ristorazione”.
È nato tutto passo dopo passo e ‘di pancia’ o con un format pianificato a tavolino?
Di pancia, o meglio, frutto della passione per questa professione. Poi, come per tutte le attività imprenditoriali, è seguito uno studio di fattibilità e conseguente business plan.
Commentiamo il vostro claim “Prima della cucina… c’è la materia prima”.
Il progetto nasce nel 2015 pensando a un posto che avesse appeal in una realtà come Parma. Immaginando di partire dai prodotti del territorio per arrivare alla ristorazione, siamo arrivati ad Alfione. Nel menù del ristorante proponiamo i prodotti della nostra selezione della salumeria. Abbiamo considerato strategici alcuni elementi: vicinanza al centro città senza limitazioni di traffico, numero degli alberghi in prossimità, sede dell’Efsa (anche come valore simbolico) e location che si prestava esattamente alla realizzazione del progetto. La clientela è oggi molto varia, composta prevalentemente da uomini d’affari, gruppi di amici e molte famiglie.
Da quanto è nel settore della ristorazione?
Se considero anche gli anni trascorsi da allievo all’Istituto Alberghiero di Salsomaggiore Terme, città nella quale nei mesi di vacanze estive ho iniziato a frequentare le cucine di diversi ristoranti del luogo, allora ne sono passati 44. Di questi, 18 come chef patron del mio ristorante che ho dovuto a malincuore lasciare per termine del contratto di locazione.
In quanti siete in cucina? E in sala?
In cucina siamo in quattro, così come in sala dove sono presenti anche il direttore e patron, Massimo Alfieri ed Elio Greci, due amici, diventati poi titolari. Io, in veste di chef, ho contribuito al lavoro di squadra portando le mie competenze.
Come ha messo su la brigata?
Per formare la brigata ho fatto una lunga selezione: alcuni candidati mi sono stati suggeriti da colleghi, altri individuati presso istituti alberghieri. È stato un percorso articolato individuare la ‘squadra’ con i giusti elementi, che non significa solo avere le capacità professionali ma anche quelle umane. In una cucina si sta insieme parecchie ore al giorno. A volte, più di quante si passano in famiglia, si lavora fianco a fianco in spazi ristretti. Ci vuole empatia e complicità: il lavoro di ciascuno è legato da un filo rosso ed è la fiducia reciproca a tenerlo unito. Per questo motivo amo avere un rapporto amichevole coi miei collaboratori, ascoltarli spesso e offrire aiuto in caso di difficoltà.
Possono essere sviluppate ancora nuove tecniche di lavorazione in cucina?
È molto probabile. La tecnologia è in continua evoluzione e tiene conto anche della salute di chi lavora nelle cucine. Le cose sono molto migliorate dagli inizi della mia carriera e l’ambiente di lavoro, grazie alle nuove tecniche, è diventato più vivibile. Inoltre, le innovazioni sia in cottura che in conservazione, permettono di ottimizzare gli acquisti e abbattere i tempi di lavoro col risultato di avere materie prime, o semipreparati, a disposizione in ogni momento ma, soprattutto, con le proprietà organolettiche invariate. Oggigiorno il ventaglio di proposte tecnologiche per le lavorazioni in cucina è talmente ampio che ogni cuoco ha la possibilità di crearsi il proprio ambiente personalizzato al pari di un taglio sartoriale secondo le proprie esigenze.
Valorizzate gli ingredienti e le ricette antiche del territorio o puntate su piatti ‘esotici’?
Parma è capitale mondiale Unesco della gastronomia e centro nevralgico della Food Valley, senza tralasciare che sarà capitale italiana della cultura 2020. Non possiamo esimerci dal proporre una vasta selezione di portate legate al nostro territorio riuscendo a distinguerci anche in una scelta così scontata e inflazionata. Proponiamo tagli di carne e preparazioni che sono uscite da tempo dai menù dei ristoranti, diciamo quasi introvabili. È emozionante e commovente sentire clienti che ringraziano per aver fatto riemergere in loro ricordi di antiche cucine, di nonne e mamme ai fornelli, di sapori dimenticati. Provocare emozioni con un piatto ci rende orgogliosi.
Come reagite ai clienti che chiedono la doggy-bag, essendo voi proprietari anche di una gastronomia?
Benissimo. È una abitudine civile non buttare il cibo che non si consuma; le nostre doggy bag sono confezionate con la massima cura, come preziosi pacchi regalo della nostra bottega.
In un locale, oltre a un imprenditore ben preparato, serve oggi anche uno chef di grido o comunque un testimonial?
Le ricette sono tante e diverse, noi abbiamo puntato sul team più che sulla personalizzazione ed identificazione del ristorante con un testimonial. La nostra visione è che il ristorante deve essere un... tutto. Ovviamente, non si può prescindere dalla cucina ma per noi ristorante significa accoglienza, ambiente e sorrisi. Far sentire le persone gradite e a proprio agio.
Cosa pensa del food inteso come show?
Bene ma non benissimo. O tempora, o mores. Personalmente trovo che ci sia una sovraesposizione e una spettacolarizzazione che rischia di far perdere di vista l’impegno, la ricerca, la passione e l’esperienza acquisita che stanno dietro alla preparazione del cibo. Tant’è che i miei colleghi, docenti di istituti alberghieri, mi dicono che mai come in questo periodo ci sono state richieste di iscrizione ai corsi di cucina, col risultato di altrettante deludenti defezioni non appena avviene il contatto col mondo del lavoro reale.
Lei ha una grande passione per la fotografia. Come influenza il menù?
Più che influenzare il menù, la fotografia è propedeutica nella creazione di nuovi accostamenti cromatici, scelta di forme e stili che andranno a comporre un piatto.
Conta parecchio l’estetica in un piatto?
La composizione grafica e scenica di una pietanza, l’accostamento dei colori, la distribuzione e la ricerca degli equilibri all’interno del piatto, sono scelte strettamente collegate alle regole che governano la fotografia. Averla studiata mi agevola nelle decisioni estetiche che trovo decisamente importanti da sempre. E l’estetica deve andare al passo con i tempi: si è aggiornata, è meno opulenta e sontuosa che in passato; tuttavia riveste un ruolo fondamentale tra i piaceri dello stare a tavola. Trovo simpatico, e ho un moto di soddisfazione personale, nel vedere i clienti fotografare i miei piatti con aria compiaciuta. Amo stupirli evitando l’ovvietà.
Il ristorante deve essere un posto dove trascorrere il tempo in maniera piacevole...
Non si può prescindere dal mangiar bene ma, oltre a ciò, è importante dove e come si viene accolti. Abbiamo pensato ad Alfione come a un posto dove ospitare gli amici, non con i canoni classici degli ambienti della ristorazione ma informale e arredato a nostro gusto, con oggetti a noi cari, da condividere appunto con i nostri amici.
Come siete arrivati alla collaborazione con Salso Carni?
Con Salso Carni, il nostro maggior fornitore, ho un rapporto di lunga data che mi accompagna da anni in tutte le cucine che ho frequentato. Inoltre, ha sede proprio a Salsomaggiore Terme, località dove ho frequentato appunto l’istituto alberghiero e dove ho mosso i primi passi nelle cucine dei grandi alberghi termali.
Ci sono prodotti C.I.C. che le vengono in aiuto durante il flusso di lavoro?
Assolutamente sì. A parte il riso, frutta secca, oli… utilizzo una serie di prodotti che definisco semilavorati che mi permettono di concentrare più tempo sugli aspetti creativi di una ricetta con un risparmio di tempo e lavoro. I materiali e le nuove tecnologie contano, sono tessere di un puzzle, ogni pezzo è indispensabile al conseguimento del risultato.
Il progetto Alfione assorbe completamente il suo tempo?
Sì, ma i risultati che stiamo ottenendo sono la benzina per proseguire. La mia priorità è continuare su questa strada e, nel contempo, formare i giovani collaboratori e trasferire loro la mia conoscenza, sia di cucina che gestionale. Per il futuro, quando avrò un po’ più di tempo, ho un progetto che unirà cibo e fotografia. Ma non voglio svelare ora di cosa si tratta.
È scoppiata la moda dei “ristoranti senza” (glutine, carne, aromi)? Che ne pensa?
Allergie e intolleranze pare siano in aumento tra la popolazione. È giusto che ognuno possa avere la possibilità di mangiare fuori casa con serenità. Per quanto riguarda invece le scelte personali di stili alimentari più healthy, l’apertura di nuovi ristoranti a tema potrebbe essere un’opportunità per formare nuove figure professionali con preparazioni specifiche.
Quanto conta un imprenditore e quanto uno chef, in un ristorante?
Non possono prescindere l’uno dall’altro, non so chi “pesi” di più, ma non riesco a immaginare un posto di successo con un pessimo imprenditore e un ottimo chef, e viceversa.
Quanto ha contato nel vostro caso aver puntato su un format come il connubio tra macelleria e ristorante?
L’idea è stata fondamentale in partenza, da questa non si poteva prescindere: l’Alfione ce lo siamo sempre immaginato così: un ristorante, una gastronomia ma prima di tutto una salumeria.
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A cura di Matteo Cioffi
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