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21 Gennaio 2015Desione e costante studio: così Leonardo Leuci, 36 anni, è diventato il re dei barman italiani. Fondatore, insieme ad Alessandro Procoli, Roberto Artusio e Antonio Parlapiano del primo speakeasy club d’Italia, The Jerry Thomas Project di Roma, è riuscito a conquistare tutti, accreditandosi a livello nazionale e internazionale come un indiscusso punto di riferimento. Intervistato in esclusiva da Mixer, spiega ai nostri lettori le strategie per avere successo e le sue idee per alleggerire la burocrazia italiana.
Qual è la mission di un barman?
La soddisfazione del cliente e la coerenza con se stessi.
A tal fine, è importante mantenersi indipendenti perché il bar dovrebbe essere un territorio libero dalle influenze negative del mercato, che tende a cannibalizzare informazione ed educational. Per poter scegliere in modo autonomo e funzionale alle proprie esigenze, il barman non può quindi prescindere da una seria formazione indipendente.
Parliamo, quindi, di formazione.
L’aggiornamento continuo è alla base del lavoro del barman. Il problema è che fino a una decina d’anni fa in Italia mancava la consapevolezza dell’importanza del perfezionamento e del rinnovamento di tecniche e ricette: dopo un corso ci si sentiva “arrivati”. Proprio per la convinzione che il mercato italiano del bere miscelato fosse molto arretrato rispetto all’estero, siamo stati tra i primi a organizzare masterclass e training per addetti ai lavori e non, per offrire spunti ai colleghi e diffondere la cultura del bile e diOggi, la situazione è diversa: complice la maggiore attenzione di aziende e media nei confronti della professione, si sono moltiplicati workshop, seminari e masterclass, con il risultato che il settore è molto caotico e le proposte non sempre di spessore. Anzi: molti si improvvisano formatori per incrementare il proprio business.
Vi consiglio quindi di investire costantemente in aggiornamento, ma di valutare sempre con cura solidità dei contenuti e credibilità dei relatori, verificandone il CV. Ricordatevi: per essere efficace, la formazione deve essere indipendente e scevra da condizionamenti delle aziende sponsor e, più in generale, del mercato.
Che cosa pensi delle competizioni?
Sono utili per condividere esperienze e conoscenze con altri colleghi, ma rispetto a una quindicina di anni fa l’atmosfera è cambiata totalmente. Quando ero giovane, la parola d’ordine era spontaneità: per vincere bisognava essere se stessi, mostrare le proprie qualità. Oggi, al contrario, occorre inventarsi un personaggio. Se il gioco rimanesse confinato alla competition, non sarebbe un problema. Purtroppo, invece, i barman spesso indossano gli abiti del personaggio anche dietro al bancone, perdendo la connessione con la realtà. Ecco quindi, per esempio, bartender che impiegano 20 minuti per un drink, convinti di essere legittimati a fare attendere il cliente in quanto artisti del bere miscelato. Inaccettabile. Per farla breve, partecipate alle gare, ma poi tornate sulla terra!
Ma il barman è un artista?
No: il barman è un businessman, che non può perdere di vista il fatturato del proprio locale e, di conseguenza, deve essere sempre al servizio del cliente. La gente non frequenta il bar per assistere a uno spettacolo, ma per bere un drink, rilassarsi, divertirsi e sentirsi a proprio agio. Il cuore di un locale è il cliente, non il barman.
Siete stati tra i primi a realizzare prodotti home made per personalizzare i vostri cocktail. Oggi suggeriresti ai colleghi di investire nella ricerca di sciroppi e bitter fatti in casa?
No, a meno che non ci sia alle spalle una serissima conoscenza della materia in termini legislativi e tecnici. È vero che introdurre sciroppi e bitter di propria produzione permette di differenziarsi dalla concorrenza. Ma attenzione: i nostri home made non sono mai nati dalla semplice lettura di libri, quanto dall’esperienza acquisita attraverso corsi professionali di erboristeria e stage in aziende esperte nella produzione di certi prodotti. Onestamente, ritengo molto più importante che il barman sia preparato, si mantenga aggiornato e sappia creare buoni drink piuttosto che proporre pozioni spesso pessime per cercare di impressionare il cliente o peggio i colleghi.
Come si riconosce il drink perfetto?
La perfezione assoluta non esiste. Piuttosto, parlerei di cocktail realizzati con consapevolezza, equilibrati e armonici. Vi suggerisco di lavorare per sottrazione e di ridurre il numero di ingredienti: evitate di usarne più di quattro. Tenete presente che il mestiere del barman classico è molto difficile: in molti si dedicano alla sperimentazione per nascondere le proprie lacune, puntando su presentazioni scenografiche, spesso pacchiane e a volte ridicole.
Che ruolo ha la decorazione?
Per me, è inutile. Vi consiglio di puntare più sulla scelta del bicchiere, che sulla decorazione in senso stretto. Basta un assortimento di 20-30 bicchieri diversi per garantirsi un elemento di ornamento non standardizzato. Detto ciò, parola d’ordine deve essere eleganza, il che significa essere essenziali e minimalisti per evitare che il decoro si sostituisca al drink. Certo, le eccezioni non mancano, penso per esempio a Marian Beke del Nightjar di Londra: ha alle spalle anni di ricerca nell’ambito della creazione di decorazioni particolari e di modalità di servizio uniche che oggi rappresentano il suo marchio di fabbrica, ed è tra i pochi capace di rendere elegante l’eccesso. Il mio consiglio? Evitate di copiarlo, ma cercate di capire i concetti alla base del suo operato e di trarne ispirazione.
Capitolo food pairing. I tuoi consigli?
Non esistono abbinamenti perfetti, anche perché ognuno percepisce i sapori in modo diverso, ma dal punto di vista commerciale il tema va sviluppato perché genera business.
In tutta sincerità, però, non vedo un grande futuro in Italia nella miscelazione connessa al food, perché siamo un Paese di vino e birra. Il food pairing si svilupperà in determinate situazioni, come eventi fashion e di design o nei ristoranti che aspirano a regalare un’esperienza a tutto tondo, limitandosi a restare un gioco divertente.
I tuoi consigli per contrastare gli effetti della crisi?
Intanto, padroneggiare le tecniche e le ricette tradizionali. Inoltre, servono semplicità e sorriso. Dobbiamo smettere di pensare che la gente vada al bar solo per bere. Per riempire il locale occorre offrire valore aggiunto attraverso un servizio impeccabile, un’offerta coerente con il target di riferimento e una scelta musicale in linea con l’ambiente.
Quali consideri i freni maggiori imposti dalla burocrazia al sistema bar italiano?
Oltre alla tassazione spropositata e alla conseguente impossibilità di remunerare in maniera adeguata i collaboratori, un freno importante è rappresentato dalla totale incapacità delle istituzioni di gestire le criticità del mercato, che all’estero spesso è un traino per l’economia. Bisognerebbe mettere gli imprenditori in condizione di fare impresa attraverso una totale deregulation.
La mia proposta? Aboliamo l’Haccp e riscriviamo le regole insieme a chi fa impresa nel bar e nella ristorazione. Inoltre, sarebbe utile che i comuni predisponessero un servizio notturno di mezzi pubblici adeguato che consenta ai cittadini desiderosi di uscire a bersi un drink di lasciare l’auto a casa senza essere costretti a prendere un taxi. Insomma, è ora di dire basta al killeraggio istituzionale verso i locali notturni che porta a forme di proibizionismo intollerabile.
Romano, classe 1976, Leonardo Leuci si innamora del mondo della miscelazione a 20 anni: lavora in Italia, Francia, Spagna, Caraibi e si appassiona subito alla tradizione cubana. Con Alessandro Procoli Roberto Artusio e Antonio Parlapiano apre quindi a Roma il primo speakeasy club d’Italia, The Jerry Thomas Project, che in soli 2 anni rientra nella lista dei “Best European Bar” e nel 2013 nei “Best World Bar”. Oltre alla gestione del locale e ai corsi per addetti ai lavori e appassionati, Leo Leuci&Soci sono impegnati nella produzione di una linea di liquori realizzata in partnership con l’Antica Distilleria Carlo Quaglia, distillatore fin dal 1890 nella piemontese Castelnuovo Don Bosco. Primo successo, il Vermouth del Professore.
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