spirits
10 Aprile 2015C’era una volta il cibo naturale, biologico, locale, sostenibile. E c’è ancora, sempre più. Una tendenza che sembrava passeggera è diventata, complice la crisi e il mutamento degli stili di vita, proprio come il salutismo, parte delle nostre vite, “it’s here to stay” come direbbero gli americani. E dopo la cucina, sembra proprio sia arrivato il momento del bere “sano e naturale”. No, non stiamo parlando di centrifughe di rapanello o acqua di agave, ma di chi vuole bere, con gradazione, bene, ma in modo sostenibile. Per il Pianeta e per il girovita. Le ultime tendenze provenienti dagli States vanno un po’ tutte in questa direzione: salutismo e naturalità. Due correnti nate in quei negozietti e ristorantini biologici e macrobiotici molto spartani e un che hanno di fatto negli ultimi anni realizzato il grande balzo verso una base sempre più allargata di pubblico. Vengono in mente i locali in legno sbiancato e mattone a vista di Brooklyn, ormai sempre più “colonia” hipster. In realtà tutto è nato qualche anno fa a San Francisco, città dalle mille anime, oggi dormitorio dorato dei tecnocrati che lavorano nella vicina Silicon Valley, ma con una solida tradizione green, eredità dei movimenti hippie e progressisti che qui spopolavano negli anni ’60. Questa metropoli quasi europea per cultura e gusto ricercato nella cucina (non esattamente una prerogativa dell’americano medio) ha visto la nascita di locali (come l’Alambec e l’Elixir) dall’aspetto classico (l’Elixir è il più antico saloon della città e ne mantiene il gusto negli arredi di legno scuro e negli sgabelli di pelle rossa) ma dal bere innovativo e sostenibile. In menù, “artisanal cocktails” che usano aromi e ingredienti freschi e locali, a chilometro zero come vuole la bibbia della sostenibilità. Sono ricette originali che cercano un equilibrio di sapori e gusti dove il mixologist diventa “bar chef”, che, come i cuochi stellati, va in cerca dei suoi ingredienti nei farmer’s market e dai produttori locali, assaggia e sperimenta, ma studia anche “i grandi classici”. Non si tratta solo di aggiungere succhi e aromi vegetali freschi. Tra gli ingredienti entrano anche i liquori locali che spesso si rifanno alla tradizione, innovandola. Tanto che dopo le birre artigianali secondo l’NRA (la National Restaurant Association americana) il trend del 2015 saranno i superalcolici aromatizzati con ingredienti locali a km 0.
Una tendenza destinata a durare e che emerge anche nei bar di nuova apertura della città californiana come il Bar Agricole, biologico ed eco-chic, o The Slanted Door, che propone il Summer on the Danube, mix di prosecco e sciroppo alcolico di fiore di sambuco da agricoltura biodinamica. La voglia di riappropriarsi del mestiere, di farsi un po’ alchimista un po’ enologo, dà l’impronta anche alla tendenza dei Barrel Aged Cocktails, i cocktail classici (Negroni, Martini, White Manhattan) affinati per qualche mese in cantina in botti di quercia, che conferiscono un aroma di va-niglia, caramello e spezie. Una tendenza abbracciata dai bar più di tendenza da New York a San Francisco ma che vede come pioniere il mixologist Jeffrey Morgenthaler del Clyde Common di Portland. L’ultimissima evoluzione? È l’uso dei Bitter, infusioni di alcol e radici, erbe e spezie, coi quali si “vira” il gusto degli alcolici di base. La tendenza nasce anche questa volta nella Bay Area, la zona di San Francisco, dove si stanno cimentando con sapori e aromi nuovi piccole distillerie locali, ma anche baristi come Joey Picchi dell’Oddjob che sperimenta con malvarosa, cardamomo nero e gallinaccio (sì, proprio il fungo).
Viviamo in una età schizofrenica in cui muore più gente di ipernutrizione che di fame. La “linea” è in cima alle preoccupazioni di molti, vuoi per motivi di salute o estetici. E anche il barista deve iniziare a tenerne conto. Certo, alcol e silhouette non sono esattamente compatibili, ma le strategie per creare mix low-calories sono varie e diverse. La mixologist Gina Chersevani (ha appena “appeso lo shaker al chiodo” ed è andata in congedo di maternità) proponeva al PS 7 di Washington DC “mini porzioni” che, grazie ai sapori forti e particolari, soddisfacevano il palato anche con dosi contenute. Un altro “trucco” è quello di sostituire lo zucchero con dolcificanti alternativi come il succo d’agave o la stevia, oppure usare liquori o vini ipocalorici, a gradazione più bassa e calorie controllate. Partendo dalla città green e tech per eccellenza, i cocktail “low-calories” sono già approdati nei bar e ristoranti mainstream di Las Vegas, che sfoggiano menu con indicate le calorie rivolti a signore e manager più preoccupati per la linea che per l’ambiente, e molti locali propongono almeno un paio di alternative ipocaloriche con ingredienti freschi (come le foglie di combava, un tipo di lime), che assicurano una ulteriore sensazione di benessere e naturalezza.
Per i baristi di casa nostra è quindi tempo di documentarsi e fare visita ai piccoli produttori locali ed artigianali. Il paniere della nostra tradizione è stracolmo di piccoli gioielli locali da proporre ai clienti o come amarcord (mi ricordo che mio nonno da bambino…) o per costruirci intorno una storia (sui metodi di produzione, sulla provenienza degli ingredienti e il territorio d’origine, sulla storia della distilleria ecc.). Dalla Val Bormida al Parco Nazionale del Pollino, alcune distillerie hanno già iniziato a produrre liquori biologici di qualità con aromi di finocchio, liquirizia, ginepro, alloro, rosa e menta. Se ritenete che la vostra clientela lo gradisca (e non pensate solo al pubblico femminile: anche gli uomini specie i più giovani sono sempre più attenti alla linea), indicate le calorie dei cocktail. Si calcolano facilmente utilizzando un calcolatore di calorie (se ne trovano sul web). Tra l’altro alcune ricerche hanno dimostrato che i cocktail low calories liberano dai sensi di colpa, tanto che alla fine se ne bevono molti di più…
Liquori di casa nostra
Tutto il mondo invidia la varietà dei nostri prodotti enogastronomici, declinati in decine di varianti regionali. E i liquori non fanno eccezione: quasi ogni città, valle o paese ne ha uno tipico, che spesso “pesca” dalla produzione agricola locale. Qualche esempio? Il liquore ai limoni di Sorrento o quello alle castagne di Montella, riconosciuti dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali come prodotto regionale insieme ad altri 12, e stiamo parlando solo della Campania. Ma tra amari, digestivi, rosoli, corroboranti ed ammazzacaffè la lista è davvero lunga. C’è da scommettere che tra poco, come è stato per le birrerie artigianali, vedremo sorgere sempre più distillerie locali come già avviene negli USA, che non avranno difficoltà a trovare in loco qualche ricetta antica da riproporre o innovare.
Liquori di tendenza
Il produttore di aromi artificiali svizzero Firmenich ha annunciato quale sarà l’Aroma del 2015: il liquore al miele. D’accordo non è proprio una novità. Ma i dati dimostrano che un prodotto come il miele, minacciato com’è da una grave malattia delle api, piace sempre più. Non solo entra sempre più spesso tra gli ingredienti dei cocktail ma i liquori che l’hanno “inglobato” (il più noto è il Jack Daniel’s Tennessee Honey, ma ci sono anche il Bushmills Irish Honey, il Red Stag by Jim Beam Honey Tea ad esempio) registrano incrementi di vendite anche a due cifre. E allora perché non buttarsi sulle nostre, infinite varianti regionali.
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