spirits
15 Marzo 2016C’è un’onda che dilaga nel mondo un po’ rigido delle distillerie dall’Australia al Regno Unito, dal Giappone al Canada: è quella dei piccoli produttori artigianali. Caparbi, entusiasti, fini conoscitori di erbe e materie prime che spesso hanno imparato a conoscere da autodidatti, sono giovani eredi di una lunga tradizione – come i fratelli Striling della Arbikie Vodka, che ad Arbroath, in Scozia coltivano da sé le patate che utilizzano per il loro morbidissimo liquore – o entusiasti da poco entrati nel business – come Bridget Firtle ha lasciato la finanza per aprire una distilleria di rum a Brooklyn, The Noble Experiment. Tutti però si distinguono per una decisa inclinazione verso la sperimentazione e la qualità, uniche armi che hanno per contrastare lo strapotere dei grandi marchi internazionali. Insieme alla comunicazione della propria specificità. Un po’ come è successo anni fa con i birrifici artigianali. Una conferma viene dalla società di ricerche IWSR specializzata nel mercato degli alcolici, che segnala come il movimento oltre ad essere diffuso in vari Paesi, riguarda varie categorie: dal whisky al gin, dal rum alla vodka, la parola d’ordine sembra essere maggior qualità, cura del prodotto e personalizzazione del gusto. Perché il consumatore, se ben informato, è disposto a pagare di più. Anzi, la stessa ricerca, che indiviua un “nuovo consumatore” desideroso di novità e disposto a sperimentare nuove etichette, vede un mercato frammentato e dicotomizzato: da un lato prodotti basici di prezzo basso, dall’altro costosissime eccellenze. Non mancano ormai le fiere interamente dedicate al genere come Destille Berlin, che lo scorso ottobre ha visto la presenza di 500 etichette e 50 piccoli produttori accomunati da “piccole produzioni artigianali, assenza di additivi, aromi aggiunti o conservanti, zuccheri artificiali e OGM” (prossimo appuntamento il 23 e 24 aprile 2016 nella capitale tedesca).
Con il Gin impazza il movimento “craft” L’Independent l’ha già ribattezzato “il drink di questa epoca”. Sì perché il gin sta vivendo una seconda giovinezza, dopo quella che ha travolto la Londra di fine Settecento. Nel Regno Unito (ma anche agli antipodi, in Australia) si moltiplicano i produttori indipendenti: solo nel 2014 hanno aperto 15 nuove distillerie. Danno sfogo alla creatività aggiungendo alla base di bacche di ginepro erbe o spezie come basilico, foglie di lime, combava e pepe di Giava. Mentre in Australia si aggiungono ingredienti locali come mirto australiano, pepe della Tasmania, Solanum centrale utilizzato nelle produzioni artigianali come Four Pillars Gin e The West Wind Gin. Una grande ricerca dunque, che investe erbe e spezie spesso coltivate in proprio o localmente, a volte biologiche, come richiede lo spirito dei tempi. Rispetto all’eterna concorrente, la vodka, il gin piace proprio per l’ampia gamma di sfumature che può assumere, tanto da cambiare distintamente sapore da un’etichetta all’altra. Ed è quindi il terreno su cui si stanno cimentando maggiormente i distillatori artigianali al momento. Anche perché, oltre alla maggiori possibilità di personalizzare il prodotto, ha dalla sua i tempi veloci di produzione che non richiedono invecchiamento.
Whisky una volta c’era la Scozia... Liquore orgogliosamente considerato simbolo della tradizione scozzese, il whisky ha ormai da tempo preso nuove strade e latitudini. La prova? Negli ultimi due anni la Whisky Bible di Jim Murray, una vera e propria “bibbia” del whisky, ha eletto miglior etichetta prima un whisky giapponese, e quest’anno un canadese, il Crown Royal Northern Harvest Rye distillato nella sperduta The Gimli Distillery (parte però della galassia Diageo). Un serbatoio quasi illimitato di piccoli produttori speranzosi sembrano essere gli Stati Uniti, dove in dieci anni si è passati da 50 a 769 distillerie artigianali secondo l’American Craft Spirits Association. Alcune certo si limitano a servire il mercato strettamente locale, altre hanno ambizioni nazionali. E spuntano in città come in campagna, producendo whisky e bourbon originali. Attenzione, non sono tutte rose e fiori. Nonostante il crescente interesse verso questi piccoli, appassionati produttori da parte di gestori di bar e ristoratori, i problemi che devono affrontare sono vari: dalle accise e costi di produzione alti alle difficoltà incontrate per la distribuzione. Tra i vantaggi la possibilità di comunicare direttamente con il cliente, date le piccole dimensioni, organizzando serate e degustazioni. Ma la strada è segnata, e nei prossimi tempi potremmo vedere molti altri attori entrare nel mercato, ormai globale, degli alcolici di qualità.
Nuove formule: il distillato si fa anche al bar
Impossibile con il whisky che richiede una lunga maturazione, possibilissimo con il gin, pronto in una manciata di giorni: dopo i birrifici artigianali arrivano i bar-distillerie con alambicchi in bella vista e la possibilità di degustare il gin appena fatto. A Londra ad esempio ce ne vari. Come il COLD bar che si affaccia sulle tubature in rame dell’unica vera distilleria di gin londinese, nella zona delle City. Oppure l’East London Liquor Company di Bow Wharf, che ha restaurato una vecchia fabbrica di colla e produce con l’alambicco a vista gin e vodka. E a Milano ha aperto a giugno, in piena frenesia da Expo-debutti, il primo bardistilleria di gin (con ristorante) italiano: The Botanical Club.
I marchi: i grandi non stanno a guardare...
L’ American Distilling Institute prevede un aumento della quota di mercato delle etichette artigianali dall’attuale 1% all’8% del mercato statunitense entro il 2020. I grandi marchi internazionali iniziano a sentirsi minacciati, e cercano di correre ai ripari, lanciando nuove etichette ed acquisendo piccoli produttori. Diageo e Pernod in primis. Quest’ultimo, che ha visto calare le vendite di Absolut negli USA, secondo il Wall Street Journal avrebbe in progetto di aprire piccole distillerie in città “ad alto tasso hipster” come Seattle e Detroit per proporre una vodka che seguirà una ricetta base ma sarà arricchita da “tocchi” di ingredienti ed erbe locali.
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