bevande
09 Agosto 2015Lotta alla contraffazione, all’evasione fiscale, una maggiore semplificazione e trasparenza nei confronti del cliente, per consentirgli una scelta chiara e sicura. Viste dagli obiettivi perseguiti, le nuove norme che vanno a regolamentare alcuni aspetti specifici della gestione di un esercizio ristorativo introdotte di questi tempi sembrano andare nella giusta direzione, dando risposte con un linguaggio nuovo alle sollecitazioni che vengono da una società, come quella italiana, in veloce e rapido cambiamento, ma con strutturali e cronici problemi in materia di trasparenza. E di rapporti con la burocrazia. La legge di stabilità 2015 comprende interventi che toccano la ristorazione in materia di defiscalizzazione dei buoni pasto, mentre la Legge 161/2014 introduce l’obbligatorietà delle bottiglie d’olio d’oliva con tappo antirabbocco; l’obbligo dell’iscrizione di potenziali allergeni nelle pietanze iscritte nel menu è invece previsto dal Regolamento Ue 1169/2011. Tutti provvedimenti che hanno una genesi e un percorso differenti tra loro ma che, ad un’apparente volontà semplificativa e di riforma, spesso lasciano l’amaro in bocca a esercenti e associazioni di categoria per la loro difficile applicabilità e per un ulteriore aggravio di costi e burocrazia nei confronti di una categoria che già sopporta i morsi della crisi e un carico gravoso di adempimenti. «In realtà ciò che colpisce – dichiara Lino Enrico Stoppani, presidente di Fipe - Confcommercio, associazione di categoria dei pubblici esercizi - è spesso la mancanza di logica e di una visione di futuro che sta dietro questi provvedimenti, a volte realizzati sull’onda emotiva e senza tenere conto delle implicazioni pratiche, in particolare dei costi»
È uno dei provvedimenti più controversi: secondo la legge 161/2014 pubblicata sullaGazzetta Ufficiale, dal 25 novembre 2014 i ristoratori che servono in sala ai propri clienti olio d’oliva vergine ed extravergine devono farlo obbligatoriamente da bottiglie antirabbocco, cioè da confezioni che impediscano di essere riempite nuovamente, magari con un olio differente da quello indicato in etichetta. L’obiettivo del legislatore è quello di combattere l’odioso fenomeno della contraffazione alimentare, del quale l’olio d’oliva è una delle vittime principali. Stop, quindi, a oliere e bottiglie “no logo”: secondo la legge l’olio d’oliva dovrà necessariamente arrivare al cliente in una confezione antifrode: “Gli oli di oliva vergini proposti in confezioni nei pubblici esercizi - spiega all’articolo 18, comma 1 il provvedimento legislativo - fatti salvi gli usi di cucina e di preparazione dei pasti, devono essere presentati in contenitori etichettati conformemente alla normativa vigente, forniti di idoneo dispositivo di chiusura in modo che il contenuto non possa essere modificato senza che la confezione sia aperta o alterata e provvisti di un sistema di protezione che non ne permetta il riutilizzo dopo l’esaurimento del contenuto originale indicato nell’etichetta”. «Siamo di fronte a un provvedimento - commenta Stoppani - che ha ottime finalità, ma che sbaglia il bersaglio. I ristoratori, spesso, sono vittime della contraffazione, che si svolge in altre sedi ed è efficacemente combattuta dai Nas e dagli altri enti preposti. Quello della bottiglia antirabbocco è un provvedimento infantile, che porta difficoltà operative ai ristoratori e genererà più rifiuti, per via del maggiore utilizzo di bottiglie usa e getta». La norma, che non fornisce alcuna indicazione chiara su come dovrebbero essere le confezioni con un tappo conforme, introduce per i trasgressori una sanzione che varia da 1.000 a 8.000 euro, con confisca del prodotto. La legge, inoltre, non prevede alcun tempo di adeguamento, neanche per l’esaurimento delle scorte in magazzino. Un classico pasticcio all’italiana che, per colpire i furbetti, rende la vita difficile ai tanti ristoratori onesti, che curano ogni aspetto del loro lavoro e scelgono per praticità olio extravergine in latta, poi servito al cliente in oliere periodicamente pulite. Una pratica, quest’ultima, divenuta impossibile con l’introduzione della nuova legge.
Una battaglia portata avanti da anni ha dato finalmente i risultati: un emendamento alla Legge di Stabilità 2015 ha innalzato a decorrere dal 1 luglio 2015 l’importo di defiscalizzazione dei buoni pasto da 5,29 a 7 euro, valore più in linea con l’attuale costo della vita. Quest’innalzamento varrà solo per il buono elettronico e la copertura sarà garantita dal Ministero delle Finanze che ha stanziato 9 milioni di euro nel 2015 e 24 milioni nel 2016. Negli obiettivi di questo provvedimento, ridare slancio a un settore importante per il terziario, dare ossigeno ai consumi fuoricasa e impedire l’utilizzo improprio di questo sistema di pagamento. «In questo caso – aggiunge Stoppanisiamo di fronte a un provvedimento che ha una logica corretta e offre risposte che crediamo efficaci. Tanto più che la defiscalizzazione dei buoni pasto è legata al formato elettronico, che consente una migliore tracciabilità dei pagamenti e impedisce che qualcuno usi i ticket per comprarsi le scarpe o qualcos’altro. Crediamo nell’utilità del buono pasto per sostenere e sviluppare i consumi interni e mettere i lavoratori in grado di consumare un pasto equilibrato in un ambiente confortevole, a tutto vantaggio del sistema paese». “Cir Food ha accolto positivamente l’aumento del valore esentasse a 7 euro per i buoni pasto elettronici - dichiara Maria Cristina Bertolini, direttore divisione buoni pasto Bluticket di Cir Food, e vicepresidente di Anseb, l’associazione che riunisce i player di questo mercato - si tratta di una buona notizia soprattutto per i 2,5 milioni di consumatori che usufruiscono del buono pasto, nonché per gli esercenti convenzionati. Anche le aziende beneficeranno di questa defiscalizzazione poiché non dovranno aggiungere contributi. In sostanza, si tratta di un’azione di grande importanza per mettere soldi in tasca ai lavoratori, favorendo l’aumento dei consumi in un determinato settore. L’aumento di € 1,71 equivarrà a poco meno di € 400 annui di reddito destinati alla spesa alimentare. Questa spinta verso il buono elettronico determinerà, inoltre, un maggior rispetto delle regole di utilizzo del buono pasto, un abbattimento dell’uso improprio e un maggior gettito fiscale». Ora il problema riguarda la razionalizzazione di questi sistemi di pagamento elettronici, che dovranno uniformarsi a un protocollo di lettura unico, che impedisca il proliferare dei terminali di lettura degli e-ticket nei locali e la complessità di utilizzo, altro elemento sul quale gli esercenti storcono il naso, con le casse di tavole calde, bar e ristoranti sempre più somiglianti a “batterie” di apparecchi elettronici, tastierini e reader, con l’immancabile corollario di cavi e cavetti.
ALLERGENI IN MENU
Che l’attenzione alle allergie e alle intolleranze di origine alimentare sia in crescita è un dato di fatto. Tuttavia un’altra tegola è caduta sulla testa del malcapitato ristoratore alle prese con una burocrazia asfissiante: secondo il Regolamento Ue n° 1169/2011 dal 13 dicembre 2014 è obbligatorio informare il consumatore sull’eventuale presenza, nei prodotti venduti o somministrati, di ”allergeni”, ossia di alimenti/ingredienti ritenuti potenzialmente sensibili. In sostanza il ristoratore/barista dovrà mettere a disposizione del cliente quest’informazione, per consentirgli di scegliere con la massima trasparenza che cosa ordinare se affetto da particolari patologie. «Riteniamo che questa volontà sia corretta – conclude Stoppani- il numero di persone che soffrono di allergie legate al consumo di cibo è in crescita anche in Italia, ma nonostante il regolamento europeo sia già in vigore, per il nostro paese mancano i decreti attuativi che diano le linee guida pratiche da seguire. Di fatto noi stiamo sensibilizzando i nostri soci sull’argomento, dicendo loro di prestare attenzione. Abbiamo elaborato un software che permette di aiutare i ristoratori nell’identificare/ evidenziare i potenziali allergeni in menu e di poterli comunicare al cliente per iscritto. Per ora rimane l’obbligo di indicare oralmente al cliente eventuali allergeni presenti in menu, ma in una seconda fase stiamo pensando ad altre formule per iscritto, nel menu o in un registro di piatti sensibili facilmente consultabile dal personale e dal cliente stesso».
La mina dell’Iva tra reverse charge e clausola di salvaguardia
I toni di industria alimentare e catene distributive sono apocalittici: l’introduzione della reverse charge sull’Iva, ossia dell’inversione contabile dell’applicazione dell’Iva per effetto del quale il destinatario di una cessione di beni o prestazione di servizi è tenuto all’assolvimento dell’imposta in luogo del cedente o prestatore, provocherà fallimenti a catena. Si annuncia, quindi, grande battaglia sulla lettera d-quinquies aggiunta al sesto comma dell’articolo 17 del Dpr 633/72, che prima di entrare in vigore dovrà passare il vaglio Ue. «Addirittura - ammonisce Francesco Pugliese, ad di Conad - la metà del settore alimentare e di quello distributivo in Italia entreranno in sofferenza». In sostanza, nella prospettiva di un più efficace contrasto alle frodi e all’evasione Iva la Legge di Stabilità 2015 prevede l’inversione contabile per le forniture di beni alle imprese della grande distribuzione, ipermercati, supermercati e discount. Ma in che modo questo provvedimento potrà interessare anche il settore della ristorazione? «Da quello che sappiamo finora – spiega Mauro Guernieri, il direttore generale della Coop Italiana Catering – il regime di reverse charge non dovrebbe colpire i nostri soci, eventualmente solo coloro che hanno come clienti soggetti identificati nelle tre categorie Ateco specifiche indicate in legge. Credo che a regime questo sistema di liquidazione Iva non dovrebbe comportare alcun problema per le aziende, ma in una situazione complessa e stratificata come quella italiana, ed in particolare le procedure per il recupero dell’IVA a credito, in molti entreranno in sofferenza per la riduzione di cash flow». Da tenere sotto osservazione è invece il rischio di aumento dell’Iva che potrebbe mettere in discussione i primi segnali di ripresa dei consumi. Secondo Fedele De Novellis, Chief economist di ref.Ricerche «Il possibile aumento dell’Iva, in base alla clausola di salvaguardia già prevista nell’ambito della discesa del rapporto deficit/Pil dell’Italia, secondo quanto imposto dalle regole europee di finanza pubblica, avrebbe un impatto negativo per la domanda di consumo e in special modo per i consumi alimentari». La tabella che pubblichiamo mostra chiaramente l’impatto del possibile aumento dell’Iva nel prossimo triennio.
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