pubblici esercizi
16 Maggio 2020Negli ultimi anni ovunque si parli di comunicazione di marca o di insegna si sente nominare lo storytelling, ma…che cosa significa veramente? Il suo significato letterale è quello di ‘raccontare storie’, ‘narrare una storia’; si applica alla comunicazione di marca quando lo si sceglie come tecnica di redazione dei contenuti che si vogliono veicolare attraverso i mezzi di comunicazione. Quindi è un modo di comunicare un prodotto, una marca, scegliendo di farlo attraverso il racconto di ‘una storia’. Ci si è resi conto che le informazioni che vogliamo passare alle persone riescono ad essere meglio comprese e ricordate se vengono ‘narrate’, cioè legando la loro comunicazione ad una serie di accadimenti, aggettivi, luoghi e protagonisti che ci aiutino a ricordarle meglio. Le informazioni in questo modo perdono la loro natura essenziale di ‘elenco di fatti’, per andare ad essere codificate dal cervello insieme a delle emozioni, per cui rimangono più profondamente impresse nella memoria, avendo un maggiore effetto sulle nostre scelte, e più a lungo.
UNA TECNICA SENZA TEMPO
Se ci riflettiamo, tutte le narrazioni che conosciamo, come le fiabe, i Vangeli, l’Odissea, le canzoni, i romanzi, i film, i racconti…tutta la narrativa ci passa dei messaggi importanti, che ricordiamo meglio perché inseriti in una storia ricca di emozioni, personaggi e particolari, che ci colpiscono, e che ricordiamo meglio e più a lungo nel tempo. Se un’informazione si lega ad un’emozione, allora rimane impressa nella memoria, e influenza i nostri comportamenti e le nostre scelte. Facendo leva sulla stessa riflessione, i professionisti della comunicazione di marca hanno pensato che si potesse utilizzare questa tecnica anche per parlare delle marche e dei loro prodotti, in modo da passare più concetti e farli ricordare meglio, con l’obiettivo di far affezionare di più i loro consumatori e influenzare più facilmente le loro scelte.
I MILLENNIALS, DIVORATORI DI STORIE
Questa generazione di consumatori – quella più presente nei vostri bar, quella che nel 2020 ha fra i 20 e i 35 anni circa - è sempre alla ricerca di informazioni per compiere le sue scelte di consumo: abituati ad avere tutte le informazioni a portata di mano, grazie al web e agli smartphone, hanno un processo di scelta e di acquisto che non prescinde quasi mai da una valutazione fatta sulla base di una ricerca su internet. Una generazione particolarmente interessata alla trasparenza, quindi, sia delle informazioni servite dalle marche che di quelle servite dai siti di meta-ricerca: non accettano che gli si menta, e prima o poi lo vengono a sapere – sempre grazie alle fonti del web e alle recensioni di altri come loro. Amano le storie, amano i racconti delle marche e dei prodotti, amano le innovazioni, sono assolutamente rapiti dal cibo, dagli ingredienti, dalla cucina. Sono fissati con la provenienza degli ingredienti, dalla filiera, dalla sostenibilità, assolutamente a loro agio con tutte quelle dizioni come DOP, DOC, DOCG, o con le sigle di addensanti e coloranti e diavolerie artificiali, che scovano immediatamente nelle liste ingredienti esposte nei negozi o sui packaging dei prodotti che acquistano. Essere esperti di cibo è per loro veramente cool, e quindi amano quei negozianti e quelle marche che gli passano delle informazioni preziose, che aumentano la loro conoscenza, che li rendono più vicini a quelle star della cucina e della pasticceria che vedono ogni giorno alla televisione. Dovete raccontargli quello che sapete, lo apprezzeranno tantissimo.
LA STORIA E LA GEOGRAFIA DEGLI INGREDIENTI
La cucina, la conoscenza degli ingredienti e delle ricette, anche internazionali, fa sì che questi nuovi consumatori siano perfettamente a conoscenza della geografia – oramai anche un po’ un cliché – della provenienza di alcuni ingredienti ‘iconici’: se il lardo è ‘di Colonnata’ e i tortellini sono ‘di Bologna’, allora i pistacchi sono ‘di Bronte’, la nocciola è ‘delle langhe’, la vaniglia ‘del Madagascar’, il caffè ‘della Colombia’, la cioccolata ‘di Modica’, la mandorla ‘di Avola’ e il mandarino sarà sicuramente tardivo e di Ciaculli… La geografia aiuta, ma aggiungere una piccola storia di provenienza agli ingredienti o al modo in cui sono lavorati, ne aumenta il prestigio percepito, provoca desiderio di assaggiare, e soprattutto aggiunge valore al prodotto e all’insegna che li usa, distogliendo lo sguardo dal prezzo e dai concorrenti diretti. Queste parole, queste storie devono parlare di qualità certificata, di artigianalità, di rarità, di esclusività, e questi sono a loro volta gli ingredienti essenziali del concetto di ‘lusso alimentare’. E per il cibo di lusso siamo tutti pronti a pagare il giusto prezzo, e forse anche a fare qualche chilometro in macchina per assaggiarlo. Cosa c’è di più narrativo e memorabile del menù di un ristorante stellato?
Come fare ad usare lo storytelling?
Roberta Parollo
Consulente senior e docente di marketing e comunicazione alla Business School del Sole24Ore, ha lavorato come Direttore Marketing in grandi multinazionali e come consulente strategico in grandi agenzie pubblicitarie. Autrice del Manuale di Gestione della Ristorazione della FIPE, si è specializzata nella consulenza per la creazione della migliore consumer experience nei pubblici esercizi.
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A cura di Matteo Cioffi
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