pubblici esercizi
02 Agosto 2022Great Resignation: è questo il nome che gli Stati Uniti hanno dato al fenomeno ormai globale delle grandi dimissioni. Una fuga dal posto di lavoro certificato anche dai numeri di uno studio McKinsey, che rileva come il 40% dei lavoratori a livello mondiale è intenzionato a cambiare il proprio percorso lavorativo nei mesi in corso, mentre circoscrivendo il discorso all'Italia – secondo il ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali – fra aprile e giugno 2021 si sono dimesse quasi mezzo milione di persone.
Il primo punto da toccare è dirimente: “Problemi di personale, soprattutto qualificato, il nostro settore, quello dei pubblici esercizi, li ha sempre avuti – ha dichiarato Luciano Sbraga, presidente del Centro Studi Fipe – Adesso, però, la questione ha assunto una portata particolare perché durante i due anni di pandemia, soprattutto nel 2020, si è verificata la fuoriuscita di 243mila lavoratori dipendenti. Di questi, 116mila avevano un contratto a tempo indeterminato, quindi parliamo di un capitale umano che godeva di una certa stabilità nel settore oltre che di grande esperienza ed enorme mole di competenze acquisite”.
Nel 2021 c'è stato poi un piccolo recupero nell'ordine delle 50mila unità, ma allo stato attuale siamo sempre sotto, più o meno, di 94mila dipendenti a tempo indeterminato. “In sostanza – ha spiegato Sbraga – con la pandemia e le relative misure restrittive c'è stato un vero terremoto nel mercato del lavoro del settore, reso poco affidabile dal punto di vista occupazionale con le persone spinte a cercare sistemazione altrove”.
I pubblici esercizi hanno perso più 30 miliardi di consumi nel 2020, recuperandone una decina nel 2021. In assenza di altri shock, si arriverà ai livelli pre Covid non prima del 2023. Detto questo, “forse in parte qualcuno rientrerà, ma bisognerà trovare nuove risorse. Ed è qui che si genera un cortocircuito che si può risolvere solo con gli anni”, ha proseguito il direttore del Centro Studi Fipe.
Oggi, però, anche se in molti danno la colpa al reddito di cittadinanza e al cambio di priorità nell'equilibrio tra vita privata e lavorativa, a infliggere negativamente sull'occupazione del settore sono soprattutto la contrattazione pirata e il lavoro nero, che uniti alle ripercussioni pandemiche hanno letteralmente massacrato il comparto.
Sulla prima, Sbraga ha spiegato: “Nei pubblici esercizi abbiamo qualcosa come 30 contratti collettivi nazionali di lavoro, tra cui il nostro che è quello maggioritario e più vantaggioso per i lavoratori. Cosa accade, che l'altra contrattualistica è al ribasso, e in Italia non esiste una norma che obbliga ad applicare un certo contratto. Ci sono aziende, ad esempio, che fanno accordi su misura improvvisati solo per abbassare il costo del lavoro e questo non aiuta. È evidente che si innesca un meccanismo di dumping e di disorientamento. Ora sarà importante costruire dei corsi di formazione professionale continua, contrastare i contratti pirata che danno meno garanzie, diritti e retribuzioni e migliorare di conseguenza il sistema nella sua interezza”.
Nel settore della ristorazione i contratti di lavoro in grigio sono all'ordine del giorno. “Si è assunti in regola con un part time da 15 ore ma si lavora a tempo pieno, a 40 ore, con una parte di retribuzione in nero – ha detto Luca De Zolt di Filcams Cigl – Se non si fanno i conti con questa realtà non si avrà mai una visione obiettiva del settore. Chiaramente, questi lavoratori inquadrati in grigio sono stati assai penalizzati anche in termini di sostegni e ammortizzatori sociali Covid”.
Infine, De Zolt tira fuori un altro elemento cruciale che ha caratterizzato lo sviluppo del terziario nel nostro Paese: “La logica del tenere tutto aperto a qualsiasi costo senza che questo abbia comportato nessun aumento dei fatturati è un dibattito che non si fa ma che è assurdo. Continuiamo a tenere aperte le strutture commerciali sempre e comunque ma questo modello non funziona”.
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