SOLLY E BUBA
IN CUCINA
IN PRIMO PIANO
Storie di integrazione
8
Mixer
/ NOVEMBRE 2017
t i i i t
i
LA STORIA: BUBA E SOLLY
Buba: “In Gambia lavoravo in un ristorante di Kololi,
sull’Oceano Atlantico. In sette facevamo i turni: un
giorno cucinavi, uno servivi ai tavoli, uno lavavi i piatti.
Suonavamo lo djembè, ballavamo e accompagnava-
mo i turisti nella foresta. Cucinavamo patti africani
ed europei, il mio lavoro mi piaceva moltissimo. Ma il
proprietario era un oppositore del regime, per questo
il ristorante ha chiuso e tutti quelli che ci lavoravano
sono scappati”.
Solly: “In Senegal studiavo diritto all’università e per
pagarmi gli studi lavoravo nel ristorante universitario.
Ho dovuto partire prima di finire l’università. Yassa,
Dolmadà, Couscous sono i piatti tradizionali del mio
Paese: sulla strada per venire in Italia li preparavo per
gli amici che viaggiavano con me. Mi piacerebbe la-
vorare in un ristorante italiano perché questo sarà il
mio lavoro, mi piacemolto. A fine cena parliamo con le
persone che hanno mangiato il nostro cibo e li ringra-
ziamo, quando qualcuno compra un tuo piatto è una
cosa bellissima. La differenza maggiore sta nei ritmi,
qui bisogna essere più veloci e organizzati”.
Come mai avete deciso di cucinare insieme? “Per
caso, ma ha funzionato. Facciamo piatti tradizionali.
Ma vogliamo iniziare anche a cucinare piatti italiani,
mischiare le cucine”.
ROMA: GUSTAMUNDO CHIAMA CUOCHI
MIGRANTI IN UN RISTORANTE ITALIANO
Gustamundo è un progetto nato due anni fa che organiz-
za cene etniche solidali in uno storico ristorante messicano
romano, con cuochi migranti ai fornelli. “Reclutati” in Ong
o centri di accoglienza tra chi ha già una precedente espe-
rienza in cucina. Abbiamo chiesto a
Pasquale Compagnoni
,
lo chef ideatore, quali difficoltà ha incontrato. “La prima è la
lingua, per trovare gli ingredienti la cosa più semplice e bella
è fare la spesa insieme. Poi i ritmi, molto diversi rispetto ai
loro Paesi”. A fine cena c’è l’incontro tra cuochi e clienti. Da
dove è nata l’idea? “Trovavo eccessivo l’accanimento verso i
migranti, e ho pensato che la cucina fosse un modo per farli
conoscere sotto una luce diversa. Stiamo partendo anche
con un catering. Queste realtà hanno bisogno di uno spirito
imprenditoriale, i cuochi sono pagati il giusto, né più né me-
no, facciamo ristorazione non volontariato. Finora abbiamo
fatto serate monotematiche, in futuro chiamerò due cuochi
di nazionalità diverse per superare i confini anche tra di lo-
ro”. Per il cliente italiano ci sono cucine più “deboli” e più
“forti”. “L’africana ad esempio è meno conosciuta, si pensa
che sia povera, strana, poi la provano e cambiano idea”. Se
qualcuno volesse chiamarli a cucinare? “È possibile certo:
sonometodici, cucinanobene i loropiatti, non improvvisano”.